IL FIGLIO PRIMOGENITO DELLA MORTE

Lebbrosario Van Mon a Thai Binh in Vietnam (2017)


Un malanno divorerà la sua pelle, il primogenito della morte roderà le sue membra (Gb 18,13): così nel Libro di Giobbe si racconta la lebbra.

Poche crude parole che presentano senza mezzi termini la realtà fatta, nel “migliore” dei casi, di dita, mani, arti mancanti e sostituiti da rudimentali protesi.

A Van Mon, poco distante da Thai Binh nel nord del Vietnam, c’è un lebbrosario, uno degli ultimi, in cui vivono oltre 200 “ospiti” seguiti da personale medico e da alcuni frati francescani.

Arriva dritto e forte come un colpo alla bocca dello stomaco l’odore acre e pungente che si diffonde dalle stanzette del ricovero.

È difficile avvicinarsi. Cattivo odore? Paura generata da una certa mitologia sulla lebbra? Sicuramente entrambe le cose.

L’aria afosa non facilita la situazione, rende il tanfo denso come gelatina. Un peso plumbeo sulle spalle grava immobile ed è destinato a durare per lunghissimo tempo.

Ognuno nel lebbrosario ha la propria storia alle spalle: qualcuno se l’è portata in camera, qualcuno l’ha lasciata prima di entrare, altri l’hanno persa nei giorni (o mesi) dopo il ricovero.

Per una storia intera il mondo li ha isolati, cacciati e spesso destinati all’oblio. La lebbra è stata pensata come una punizione divina che divora la persona nel fisico e nell’anima. Non è di certo un castigo di Dio ma una malattia come altre che flagellano l’umanità. L’anima è provata ma non si corrode.

I giorni scorrono con lentezza, chi deambula senza troppa difficoltà coltiva un piccolo orto, fa delle brevi passeggiate sul piazzale antistante il lebbrosario o si siede all’ombra per scambiare due parole con i frati e con gli altri malati.

Ce ne sono alcuni però che la malattia ha letteralmente divorato: gli occhi, i connotati del viso sono ridotti niente, al posto del naso restano un paio di fori e, più di altri hanno bisogno di assistenza anche nei piccoli gesti quotidiani, che può arrivare da personale specializzato o dal vicino di stanza che magari conserva ancora alcune dita.