Sopravvivere in Iraq

(Erbil, Kurdistan, aprile 2015)


Non è facile vivere, sopravvivere, in un campo profughi. Soprattutto quando da un'ora ad un'altra si perde tutto ciò che si ha, si viene caricati su un autobus e la figlia di tre anni che hai in braccio la prende un guerrigliero dell'ISIS e non se ne ha più notizia. E' la storia di Aida, appena quarantenne ma con l'aspetto di una persona anziana, e della figlia Cristina. Un container come tanti, nel dedalo del campo "La Pace", all'interno Aida seduta su delle coperte stringe un quadro con la foto della figlia e, mentre l'odore pungente della stufa a cherosene brucia in gola, racconta la storia. 

Il 6 agosto (2014), di mattino presto, è iniziata su Qaraqosh una ondata di bombardamenti non con i missili ma a colpi di mortaio: sono morti due bambini e una donna.

La portata degli accadimenti di quella giornata andava crescendo sempre più, l'Isis era riuscito a conquistare una parte di Qaraqosh e, attraverso l'istallazione di megafono, i miliziani hanno intimato a tutti i cristiani di lasciare il villaggio altrimenti sarebbero stai uccisi. Nonostante questo abbiamo deciso di non lasciare il villaggio e rimanere nella nostra casa.

Pensavamo che la situazione avesse potuto migliorare ma in realtà ogni giorno peggiorava. Venivamo minacciati in continuazione, volevano che ci convertissimo all'Islam, erano sempre armati.

Uscivamo di casa solo per cercare del cibo. Siamo rimasti per 14 giorni in città, piano piano tutti i membri della famiglia se ne sono andati e siamo rimasti solo mio marito, i miei figli, tra cui Cristina ed io.

Il 22 agosto un autobus è venuto davanti alla porta della nostra casa e ci hanno fatti salire con forza, per portarci nella clinica di Qaraqosh dicendoci che ci avrebbero fatto delle analisi e offerto cure sanitarie.

Dopo la clinica ci hanno fatto risalire sull'autobus e hanno aperto le nostre borse in cerca di soldi e gioielli.

Senza una spiegazione, mentre eravamo sull'autobus, uno dei soldati dell'Isis si è accorto che tenevo Cristina fra le braccia e l'ha presa con forza per farla tornare alla clinica. Ho chiesto di essere portata dall'Amir, il principe, del gruppo dell'Isis per supplicarlo, che era nella clinica, ma mi hanno detto di no.

L'uomo che mi ha portato via mia figlia non era iracheno, lo ho capito dall'abbigliamento e dal modo di comportarsi, non mi parlava, faceva solo dei "gesti" con gli occhi. Ho visto uscire l'Amir dalla clinica con sulle spalle mia figlia, Cristina. Lo supplicavo di riavere mia figlia ma l'unica risposta che ho avuto è stata: "Sali sull'autobus o ti ammazzo". Non ho potuto fare niente.

Poi l'autobus è partito e dopo un'ora di tragitto eravamo nel deserto, ci hanno fatti scendere per proseguire a piedi. Mi ricordo che abbiamo dovuto attraversare un fiume abbastanza profondo, avevo paura di annegare e ho chiesto aiuto per passare. Dopo sette ore di cammino siamo arrivati ad Erbil, dove ci hanno accolto i peshmerga dandoci subito acqua. Tutto questo, come ho detto, è accaduto il 22 agosto (2014), l'ultima volta che ho visto Cristina.